Mi chiamo Bashir Lazhar e chiedo al grande capo una piccola revisione. Se potesse tornare sulla sua decisione di togliermi quanto ho di più prezioso al mondo, ne trarrei un beneficio certo per funzionare nella vita. So che all’ufficio reclami la coda è lunga, ma se potesse almeno restituirmi la mia famiglia gli farei una pubblicità straordinaria. Pare che la contrattazione sia una tappa normale del lutto. Così eccomi qua: contratto, è normale. Non voglio essere coraggioso. Non voglio rimettermi in carreggiata. Non voglio dimenticare. Non voglio cavarmela. Voglio mia moglie, voglio i miei figli. Non voglio morire, perché so che non è vero che dopo li ritroverò. Non è vero. La morte non ha premi di consolazione. Non voglio essere consolato, non voglio addormentarmi o stordirmi e non sapere più niente. Voglio sapere esattamente il mio dolore, saperlo e misurarlo. […] C’è una misura per tutto. Voglio tutte queste cose e non voglio chiederle cortesemente. Non voglio che la mia famiglia serva da lezione all’umanità. Voglio che viva senza insegnare niente a nessuno. Voglio pensare a mia moglie e che il pensiero mi faccia sorridere, come prima. Non voglio più nulla di ciò che volevo. Non voglio documenti, non voglio un lavoro, non voglio essere un rifugiato, non voglio la pace. Voglio la mia famiglia, anche la famiglia impaurita, anche la mia famiglia con la nausea, la voglio anche sudata e coi brividi e coi crampi e le emicranie, la voglio per fare finta ancora una volta, per fare come se potessi salvarla un’ultima volta.
Vuoto. Silenzio. Solitudine. Personalmente non riesco a immaginare nulla di più spaventoso.
Bashir Lazhar è scappato da un Paese in guerra cercando di costruire un futuro migliore per la sua famiglia. Bashir quando è partito aveva una moglie e tre dolcissimi figli, tre dolcissime crisalidi. Bashir li amava tanto, e proprio per questo ha scelto di partire prima di loro, da solo, per andare a preparare un terreno fertile dove piantare nuovamente radici. Facendolo, però, si è comunque premurato di dar loro una via di fuga quanto più confortevole possibile: perché Bashir – anche se ora è logorato dalla nostalgia e dai sensi di colpa – in cuor suo lo sa di aver sempre fatto tutto pensando prima a loro che a sé stesso. Sulla carta, insomma, tutto perfetto: peccato che la realtà a volte sappia essere davvero crudele.
La sua famiglia ora non c’è più. Sarebbero dovuti partire in sordina la mattina del 25 giugno, e quando la sera prima sono andati tutti a dormire combattuti tra l’ansia della partenza imminente, la voglia di riscatto e l’euforia del loro quanto più prossimo ricongiungimento nessuno si sarebbe aspettato che in pochi istanti sarebbe cambiata ogni cosa. Non c’è stato neanche il tempo di concedere alla pallida luna di sorgere e tramontare che i loro sogni sono andati letteralmente in fumo. La sua famiglia ora non c’è più: gliel’hanno portata via le fiamme, appiccate quella notte da qualcuno che, forse, aveva scoperto i loro piani di fuga. La sua famiglia non c’è più: dal suo albero bruciacchiato ora mancano dei rami importanti, e con loro anche tutte le dolci crisalidi che vi erano attaccate. Con quei rami sono bruciate tutte prima di poter anche solo sperare di diventare delle bellissime farfalle. La sua famiglia ora non c’è più, e Bashir, purtroppo, non può farci più nulla.
La solitudine mi spaventa terribilmente. Non fraintendetemi, non parlo del comune star soli un sabato sera che non si ha voglia di uscire o il non avere nessuno con cui passare un qualche ponte perché ci si è organizzati all’ultimo: intendo proprio quella sensazione di abbandono che attanaglia chi, dopo un lutto o un brutto addio, non sa capacitarsi di cosa sia accaduto. Forse è vero che, per quanto si possa amare una persona, non si capisce mai davvero quanto si tenga a lei finché non la si è persa. Purtroppo questo tipo di solitudine non si cura nemmeno alzando al massimo il volume della radio, guardando l’ultima puntata di una serie TV, uscendo con gli amici tutte le sere, dormendo o leggendo un libro del nostro scrittore preferito: sono tutti ottimi diversivi, non c’è dubbio, ma non esiste un modo per cancellare il dolore, per spegnere il cervello e lasciarlo in stand-by finché non si sarà abbastanza forti da poter affrontare tutto senza timori. Il dolore resta lì, con te, ogni giorno, e per quanto tu cerchi di soffocarlo e di zittirlo ascoltando altro o stando in mezzo al caos della gente, quando tornerai a casa, da solo, lui sarà sempre lì ad aspettarti. O, meglio, lui sarà sempre stato con te, esattamente come la tua ombra: perché il dolore non ti lascia mai. Il dolore è davvero come la tua ombra: c’è sempre. Magari ogni tanto non ti accorgi della sua presenza, poi a un tratto passi sotto un lampione e la vedi lì, nera, gigantesca, che ti cammina accanto e ti circonda ad ogni passo.
Bashir ha perso tutto: la sua famiglia non c’è più, vive in un paese che non può neppure chiamare “casa” e ha intorno persone che – per quanto lui si sforzi – non riescono mai davvero a comprenderlo. Bashir è solo, e la sua anima è ormai svuotata da ogni cosa bella che la vita gli aveva donato fino a quel momento: non gli resta nulla per riempire il silenzio che aleggia rumoroso nella sua testa, se non forse l’assordante frastuono dei ricordi e il dolore, consapevole che, purtroppo, non torneranno più.
Bashir trova conforto solo nell’insegnare ai bambini: quando scrive con il suo gessetto bianco sulla lavagna nera per un momento tutto si ferma, anche nella sua testa. Il vuoto pian piano sembra riempirsi – anche se per poco – e quel silenzio assordante si attenua abbastanza da farlo sentire per qualche istante meno solo. Per Bashir la scuola e i suoi alunni sono una sorta di “via d’uscita” dal frastuono dei suoi ricordi, dall’agghiacciante senso di inadeguatezza e di vuoto che gli ha lasciato dentro la perdita dei suoi cari. Per un momento la sua testa si libera, ma quando torna lucido lo sa che in realtà l’unica cosa che vorrebbe – in quel momento come in qualunque altro – è “sapere esattamente il mio dolore, saperlo e misurarlo”. Perché – per quanto possa far male ammetterlo – ormai della sua famiglia non gli è rimasto che quello: il ricordo di tempi felici e il tremendo dolore di non poterli mai più rivivere.
Ho fatto un patto col mare:se la mia testa fa troppo rumore, io vado da lui e lui la spegne, la spegne e inizia a parlarle sopra finché non riesce a calmarla un po’ .
Vuoto. Silenzio. Solitudine. Personalmente non riesco a immaginare nulla di più spaventoso.
Non sono mai riuscita a capire come facesse la gente a sopportare quel silenzio assordante e quell’inquietante senso di vuoto che ti lascia dentro la perdita di qualcuno. Io quel silenzio lo rifuggo e l’ho sempre rifuggito in ogni modo, e negli anni per sfuggirgli sono addirittura arrivata a “scendere a patti” col mare: se la mia testa fa troppo rumore, io vado da lui e lui la spegne,la spegne e inizia a parlarle sopra finché non riesce a calmarla un po’. Funziona, anche se per poco. E questo non vuol dire cancellare il dolore, ma semplicemente darsi il tempo di riprendere le forze per essere pronti a sopportare la prossima trance di vuoto, silenzio e solitudine con una forza e un coraggio tali da riuscire a non farsi soffocare.
Bashir ha perso tutto. Bashir ha perso tutto, e lo sa perfettamente. Bashir ha perso tutto, lo sa perfettamente e – per quanto cerchi di andare avanti – non riesce a capacitarsi di come sia potuto accadere proprio a lui. Bashir ha perso tutto. È solo, svuotato e amareggiato in un Paese che non è il suo, tra persone che non sono la sua famiglia, a fronteggiare ogni giorno una battaglia contro i mulini a vento peggiori che ci siano: i ricordi di ciò che è stato e mai più sarà.
Se esiste una morale in questa storia, a mio parere credo potrebbe essere letta in unico modo: tra le tante vicissitudini vissute da Bashir, nel caos di un mondo frenetico, alla continua ricerca di novità, l’unica cosa che conta è avere accanto qualcuno da amare e che ci ami. Che sia la nostra famiglia, i nostri amici o la nostra “metà”, poco importa. Magari è vero che non ci rendiamo conto di ciò che abbiamo finché non lo abbiamo perso: io questo non posso dirlo, perché proprio non lo so. In fondo, sia che si ami e si rispetti una persona ogni giorno, sia che la si dia per scontata pur volendole comunque bene oltre l’inverosimile, una perdita è sempre una perdita. E fa male, fa male da morire. Nel dolore della perdita, però, c’è una cosa che quasi tutti diamo per scontata, ma che forse è l’unica che può in qualche modo “salvarci” da noi stessi: il nemico non è il dolore. Il nemico in quel momento siamo noi in quanto vittime della perdita, siamo noi a tirarci giù nel baratro: il dolore, in fondo, è solo un modo per lenire la cicatrice lasciata dal vuoto di un addio. Per quanto male possa fare, il dolore non va mai zittito, perché è nei ricordi che vive chi non è più accanto a noi. E, per quanto male possa fare, il dolore e il ricordo sono le uniche cosa che ancora tengono viva la memoria di chi non c’è più. Per quanto male possa fare, il dolore è l’unica cosa che – in momenti della vita come questi – può farci sentire ancora vivi.
Se posso darvi un consiglio, se posso permettermi di condividere con voi l’esperienza di una ragazza tanto forte all’apparenza quanto fragile nella sostanza, che ci è passata più di una volta e (purtroppo per lei) non ne è uscita e non riesce a uscirne – e tante, troppe volte neppure a parlarne – faccio per un attimo pace con la mia testa e vi dico solo un’ultima cosa: ascoltate il vostro dolore, non reprimetelo, lasciatelo uscire. E se a volte vi sembra più grande di voi, se credete di non riuscire ad andare avanti, se sentite di non sopportare più nulla di tutto questo, chiedete aiuto al mare: è di poche parole, ma vi assicuro che – se solo lo si sa ascoltare davvero – riesce sempre a dire la cosa giusta.
Sanremese nel cuore, ma dal 2013 genovese d’adozione.
Laureata in Informazione ed Editoria a marzo 2019, Guenda ama vivere i suoi 25 anni con la frenesia di un uragano.
Animo eclettico, non sopporta la monotonia e si riempie la vita di mille impegni: forse per questo sogna giornate di 36 ore. Ama trascorrere il suo (purtroppo scarso) tempo libero barcamenandosi tra teatro, amici, viaggi, cinema, lettura e buon vino, ma quando può non disdegna neppure una bella passeggiata solitaria in riva al mare.
Innamorata della vita e incuriosita dal futuro, si riempie le giornate con le sue molteplici passioni, ma alla fine ha da sempre un unico grande sogno: il giornalismo.
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