Una stanza di ospedale e due donne, mascherate, sono le attrici non protagonisti di questo spettacolo. Ma la vera prima donna è la Poesia.
Che cos’è un artista, senza la sua arte?
Il duo Ricci-Forte in scena
In questo spettacolo di Ricci-Forte, le attrici sul palco, mascherate, parlano al microfono e ricordano, evocano, raccontano. Dai vestiti e dai gesti, oltre dal fatto che una delle due è sulla sedie a rotelle, si può ipotizzare che siano una malata terminale e la sua infermiera. La stanza è completamente bianca, come sono bianchi i camici che indossano le donne, e le loro maschere: una stanza di ospedale, sicuramente, anonima, gelida, pulita. Siamo in un non luogo, in un posto che più che uno spazio fisico rappresenta un momento, quello del passaggio: fra la vita e la morte, fra l’esistenza e il nichilismo, fra l’essere e il non essere. All’inferma e alla sua “traghettatrice” non serve dialogare, per portare a termine questo viaggio. Le parole che servono sono quelle eterne della poesia. Una voce fuori campo legge le poesia di Marina Cvetaeva, morta suicida in seguito all’esilio e alla censura imposta dal regime Staliniano alla sua arte. Una donna in cui si condensa un’importante questione: che cosa rimane di un’artista, se non può esercitare la sua arte? Una donna che racchiude in sé perfettamente il dualismo messo in scena da Ricci-Forte, quello tra vita e morte, nichilismo ed esistenza.
Che cosa ne pensi, Marina?
Questo testo mette in scena, con un allestimento moderno, costumi contemporanei e musiche dei nostri giorni, una questione eterna: il passaggio fra la vita e la morte, fra l’esistere e il non essere. Si tratta di un tema che ha sempre accompagnato, e accompagnerà per sempre, l’esistenza umana. Le parole di Marina, scritte quasi cento anni fa, illustrano perfettamente questo argomento. L’accostamento fra il nuovo (scenografia, musica e costumi) e il vecchio (le parole della Cvetaeva) ripropongono questo dualismo, la contrapposizione fra opposti che già era presente, in questo dialogo fra la vita e la morte. Che cosa ne pensi, Marina? Tu, che scrivevi di amore e di libertà, che rivendicavi la tua indipendenza, il tuo diritto di innamorarti e di vivere, che ti ribellavi all’oppressione e alla dittatura… Tu, Marina, ti saresti immedesimata in questa attrice vestita di bianco, seduta su una carrozzella che, passiva, si lascia docilmente traghettare della sua dolce amica Morte, al regno dell’Aldilà? Non mi sento di rispondere per te, Marina, ma posso ricordare le tue parole:
“Sappiate che esistono solo omicidi Al mondo nessuno si è mai suicidato”
Chissà, Marina, se anche tu, come l’attrice sul palco, ti sei fatta accompagnare. Oppure se, quando per disperazione ti sei impiccata, sei stata la fiera Caronte di te stessa, da sola hai attraversato quel fiume, mano nella mano con la tua mano, che ti ha uccisa. Sembra che tu non ti sia fatta spingere, dai tuoi assassini, verso il destino a cui loro ti hanno condannato. Hai preferito fare da sola, piuttosto che dare la soddisfazione ai veri colpevoli della tua morte, coloro i quali ti hanno tolto la tua poesia e ti hanno cacciata dalla tua terra, di toglierti anche la vita.
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