Mi siedo in platea. Sala Mercato: niente sipario. Scenografia già visibile. Interno di appartamento: tavolo rotondo con tovaglia a quadretti e tre sedie intorno, una poltrona, a fianco un tavolino con telefono e abat jour attaccata alla presa, parete di fondo con un vecchio portone d’ingresso e sulla sinistra, poco più in alto, un quadro appeso… o meglio… una cornice… dentro, il vuoto.
Questo è il biglietto da visita di “Lucido” di Rafael Spregelburd, autore argentino che forse conoscete già per le “Le solite ignote” andato in scena nella Rassegna di Drammaturgia Contemporanea del 2018.
La storia parte velocemente con personaggi tanto perfetti da essere fastidiosi: una famiglia felice (mamma, figlio e figlia) a cena in un ristorante, troppo belli per essere veri. Infatti è un sogno lucido di Luca, il figlio. Un sogno dove può scegliere come fare andare le cose. Perché infatti la realtà è tutt’altra…
Luca a 10 anni rischia di morire, perché bisognoso di un trapianto di rene. La sorella di 13 anni, Lucrezia, incoraggiata dallo spirito di sacrificio delle protagoniste del libro “Piccole donne”, decide di farle da donatrice. Questo gesto sfascia la famiglia.
Lo spettacolo ci racconta quindici anni dopo. Il padre è scappato con un’altra; Lucrezia dopo l’operazione viene ricoverata a Miami per degli accertamenti e non tornerà più a casa; Luca guarisce e vive a stretto contatto della madre Teté, tanto da non sapere più chi è lui. Lucrezia torna a casa dopo quindici anni e rivuole ciò che è suo, perché suo marito è ricoverato a trapianto. Qui scatta il panico…
Ciò che va a snodarsi da qui in avanti è un susseguirsi di quadretti assurdi e paradossali, al limite del follia. È difficile non ridere, ma parliamo di quelle risate amare, quell’ironia calviniana che ti fa sentire un po’ colpevole mentre ti sganasci.
Il libretto di sala suggeriva un paragone preciso e calzante: sembra di stare dentro una telenovela da quanto la situazione sia piena di buchi e trovate fuori logica. Ma tutto acquista un senso nell’ultimo quadro.
Quanto è vero un sogno e quanto è finta la realtà? Un filo sottilissimo corre lungo “Lucido” e i suoi personaggi. Siamo in un limbo ben preciso, con un nome doloroso. Un limbo dove la luce e il sacrificio giocano un ruolo fondamentale. Un limbo pieno di domande in cerca di risposte. Un limbo dove una cornice non è una cornice e dove tre cuori battono all’unisono.
“Lucido” fa centro senza grandi pretese. Ti cuoce a fuoco lento (su una pietra, magari!) e all’ultimo alza la fiamma. Regala due ore di divertimento allo spettatore e, negli ultimi minuti, lo colpisce allo stomaco. “Lucido” di Jurij Ferrini è uno spettacolo che sa sorprendere, che merita di essere gustato fino all’ultimo secondo e che mi piacerebbe rivedere.