Dal 13 al 18 marzo il celebre dramma di Michael Frayn calca le scene genovesi e fa riflettere i suoi spettatori
Margrethe: Ma perché?
Bohr: Ci pensi ancora?
Margrethe: Perché è venuto a Copenaghen?
Bohr: Che importanza ha, tesoro, adesso che siamo tutti e tre morti e sepolti?
Margrethe: Certe domande rimangono a lungo anche dopo che chi le ha fatte è morto. Si aggirano come fantasmi, cercando le risposte che non hanno mai trovato in vita.
Bohr: Certe domande non hanno risposta.
Copenhagen, 1941. La Danimarca, così come la stragrande maggioranza dei paesi europei, è ormai assoggettata al controllo nazista. La guerra si sta sempre più indirizzando verso un progresso scientifico quasi totalmente avulso da qualunque tipo di impronta etica: ma proprio in questo contesto i Tedeschi si ritrovano qualche passo indietro rispetto agli Alleati. Dal fisico italiano Enrico Fermi al tedesco Albert Einstein, dall’ungherese Leo Szilard al chimico tedesco Otto Hahn: le menti più brillanti della comunità scientifica europea del tempo sono ebree, e per sfuggire alla deportazione hanno scelto di trasferirsi tempestivamente oltreoceano. Una volta giunte su suolo americano, la maggior parte di loro ha iniziato a lavorare al Progetto Manhattan, sotto la guida del fisico statunitense Robert Oppenheimer. Con conseguenze catastrofiche.
In questo scenario (tutt’altro che rassicurante) si inserisce un altro dramma, che contrappone ancora una volta etica e scienza, in una dimensione umana tanto toccante quanto complessa.
Il fisico tedesco Werner Heisenberg (Massimo Popolizio), quello danese di origini ebraiche Niels Bohr (Umberto Orsini) e sua moglie Margrethe(Giuliana Lojodice) sono ormai defunti da anni, ma proprio per questo possono finalmente cercare di ricostruire nella maniera più oggettiva possibile il loro ultimo incontro. Come già detto, siamo a Copenhagen, nell’ottobre del 1941. All’improvviso Heisenberg (ormai affermato fisico della “squadra” tedesca) bussa alla porta del suo vecchio insegnante Bohr. E una domanda sorge spontanea: qual era il motivo della visita?
Margrethe: Insomma, che cosa dicesti di così misterioso?
Heisenberg: Non c’ è niente di misterioso. Non c’è mai stato alcun mistero. Lo ricordo molto bene, perché era in gioco la mia stessa vita, e scelsi le parole molto attentamente. Ti chiesi semplicemente se come fisico uno aveva il diritto morale di la vorare allo sfruttamento pratico dell’energia atomica. Giusto?
Bohr: Non ricordo.
Stando all’interpretazione proprosta nella pièce, Heisenberg avrebbe voluto aiuto da Bohr, ma non è stato capito.
Da quel momento i loro rapporti si interrompono: Heisenberg torna in Germania, dove rimane fino alla fine della guerra, cercando in ogni modo di ostacolare le mire tedesche nei confronti dell’energia nucleare pur continuando, di fatto, a collaborare con il regime. Bohr, invece, dopo essere scappato in Svezia nel 1943 per sfuggire ai rastrellamenti nazisti, parte per l’America, dove entra a far parte del Progetto Manhattan.
Un dramma senza fine
Protagonista indiscusso dell’opera è il dramma umano, affiancato dall’eterno contrasto tra etica e scienza. E in questo frangente, proprio grazie a un uso ragionato ed etico della fisica, è possibile esplicitare una delle più importanti verità relative all’uomo: nulla è assoluto o certo proprio in quanto umano.
Bohr: Prima che possiamo afferrare qualcosa, la nostra vita è finita.
Heisenberg: Prima che possiamo capire chi e che cosa siamo, siamo finiti e ridotti in polvere.
Bohr: Sepolti da tutta la polvere che abbiamo sollevato.
Margrethe: E prima o poi, verrà il tempo in cui tutti i nostri figli saranno ridotti in polvere; e tutti i figli dei nostri figli.
Bohr: Quando non si prenderanno più decisioni, grandi o piccole che siano. Quando non vi sarà più indeterminazione, per ché non vi sarà più conoscenza.
Margrethe: E quando tutti i nostri occhi saranno chiusi, quando anche i fantasmi saranno scomparsi, che cosa rimarrà del nostro beneamato mondo? Del nostro devastato e disonorato e beneamato mondo?
Heisenberg: Ma nel frattempo, in questa preziosissima frazione di tempo, qualcosa c’è. Gli alberi di Faelled Park. Gammertingen e Biberach e Mindelheim. I nostri figli e i figli dei nostri figli. Salvati, forse, da quell’unico breve istante a Copenaghen. Da un qualche evento che non sarà mai es attamente individuato o definito. Da quel nucleo finale di indeterminazione che sta nel cuore delle cose.
Dopo la prima italiana del 1999, la Compagnia Orsini mette in scena ancora una volta il dramma storico-scientifico ideato dal commediografo britannico Michael Frayn nel 1998.
L’ambientazione richiama quella di un’aula universitaria, con grandi lavagne nere su cui campeggia il bianco delle formule fisiche trascritte. La scena rimane fissa, e i cambiamenti spaziali e temporali sono resi possibili sia dal gioco di luci che dal movimento, ricreato grazie ai gradini che dividono il centro della scena dagli imponenti lavagnoni pieni di numeri e formule.
Il dramma umano, raccontato attraverso la magistrale interpretazione di Orsini, Popolizio e Lojodice, scorta lo spettatore entro una dimensione ben più ampia di quella teatrale: una dimensione in cui si intersecano diversi piani di lettura, permettendo di evidenziare le molteplici sfaccettature psicologiche dei personaggi. Ma è la continua ripresa dello stesso episodio che rende evidente quale sia il fulcro di ogni cosa: la caratteristica indeterminazionedella vita umana.