Una rivisitazione del teatro di Molière spogliata di quasi tutto il suo alone romantico e catapultata senza mezzi termini nella modernità del nostro tempo
Debutto col botto ieri sera per il Don Giovanni di Valerio Binasco, in scena alla Sala Corte del Teatro Nazionale di Genova da ieri – martedì 22 gennaio – a domenica 27 gennaio 2019.
Una luna onnipresente fa da sfondo a una scena in cui i giochi di luce rendono in maniera quasi esasperata l’atmosfera cupa della rappresentazione, specchio dell’anima di un Don Giovanni forse – in questa sua versione “rinnovata” – meno malinconico di quanto la tradizione non ci abbia abituati a vivere. Ironico, feroce e decisamente umorale, in queste vesti il più celebre libertino della letteratura aggiunge alla leggenda un qualcosa in più, che lo avvicina in maniera quasi “straniante” ai giorni nostri.
I cambi di scena sono segnalati a un forte e colorito mutamento negli accenti dei personaggi che Don Giovanni (Gianluca Gobbi) e il “fidato” servitore Sganarello (Sergio Romano) incontrano sul loro cammino. Un cambiamento spaziale, insomma, che si associa anche all’incessante scorrere del tempo: un modo per rendere lo spettatore partecipe delle diverse realtà in cui l’eroe/antieroe arriva a inserirsi.
Materialista, immorale, vittima – e carnefice – di vizi a cui pensa di poter tener testa sempre, su cui crede di poter avere per sempre il dominio. Sensuale, sfrontato e per nulla timoroso di Dio: questo era (ed è) il leggendario Don Giovanni che il teatro e la letteratura hanno trasportato fino a noi attraverso il fiume in piena della storia, senza mai scalfirlo. Questa è la figura che – seppur in questo caso decisamente rivisitata – ha ammaliato e continua ad ammaliare giovani e meno giovani, generazione dopo generazione.
«Ho deciso di lasciar perdere il Cavaliere spagnoleggiante della prima tradizione o la figura vampiresca e tardoromantica che fu cara agli intellettuali del secolo scorso. Per quanto mi riguarda si tratta solo di divagazioni lontane da quella cosa che io chiamo “vita”». Si era così pronunciato Binasco, il regista, in merito allo spettacolo e a quelle che erano le intenzioni principali della mise en scène. Il suo scopo, in fondo, non era altro che cercare il protagonista di questa storia «nella vita più che nel testo». «Se lo cerco nella realtà che mi sta intorno» conclude «Don Giovanni è poco più di un autentico delinquente: è il risultato di desideri compulsivi e viziosi, che coltiva con il preciso scopo di stare bene con se stesso».
E allora ecco che le tinte fosche, la luna onnipresente alle spalle dei personaggi, la luce pallida e i giochi di ombre che invadono e caratterizzano la scena per tutta la durata della rappresentazione finiscono per essere null’altro che la trasposizione di Don Giovanni “al di fuori” del mero personaggio. Un alone di mistero sempiterno, che in fondo non è altro che quello creato dal libertino più famoso del mondo con la sua – tanto semplice quanto profondamente ammaliante – favella, che dalla leggenda alla letteratura ha accompagnato e ammaliato e continua ammaliare generazioni di uomini e donne in tutto il mondo.